Introduzione

"Come scrittori di romanzi non siamo capiti".
Introduzione di Ugo Gugiatti a "L'uomo delle taverne", romanzo del Pinchet

venerdì 21 dicembre 2012

Raccontino per Natale, dedicato a Gianni Brera

Quando uno si sposa deve avere un trapano

Zeno Civetta se ne stava sdraiato sul divano della camera 27 all’Hotel Excelsior. Un posto di lusso. Guardò sul giornale locale e trovò un numero buono. Chiamò.
“Centro massaggi, dica”.
“Buongiorno, vorrei una ragazza all’Hotel Excelsior, stanza 27”.
“Che ragazza? Una di quelle dell’annuncio?”.
“Sì”.
“Come la preferisce?”.
“Che sia carina, pulita”.
“Mora o bionda?”.
“Non mi interessa”.
“Fra trenta minuti sarà da lei, signore”.
“Grazie mille. Arrivederci”.
“Arrivederci, signore”.
Zeno Civetta abbassò il ricevitore e andò nel bagno. Si fece la barba e si diede una sistemata ai capelli, poi rifece il nodo alla cravatta e indossò la giacca. Bevve un sorso di champagne e sintonizzò la radio sul canale della musica classica. Attese seduto sul divano; era emozionato, colmo di vergogna e sensi di colpa. Dopo quaranta minuti bussarono alla porta. Zeno Civetta si alzò dal divano e andò ad aprire.
“Buongiorno, sono Stefi”.
“Buongiorno, Stefi, entri”.
La ragazza entrò nella stanza. Aveva circa venticinque anni, alta un metro e abbastanza, capelli a modo, occhi due, naso uno, volto crema pulito, due notevoli tette di media proporzione, apparentemente dure come il marmo. Uno sguardo intelligente. Era fasciata dentro un soprabito scuro, ma appena iniziò a sbottonarsi, si poterono notare una camicetta aderente nera, aperta da sotto il seno in giù, una mini gonna grigia, calze di seta scure, scarpette con tacco discretamente alto. Non sembrava truccata, solo un po’ di rossetto sulle labbra. Si lasciava dietro una buona scia di profumo. Si tolse il soprabito posandolo sul divano e Zeno Civetta, che si aspettava di avere meno fortuna, imbarazzato, chiese:
“Ma lei è la ragazza mandata dall’agenzia?”.
“Sì, sono del Centro massaggi. Mi hai cercata tu, no?”.
“Sì, ma pensavo a qualcosa di diverso”.
“Non ti vado bene?”.
“Scherza? E’ solo che non sembra una massaggiatrice…”.
“Cosa sembro?”.
“Non sembra una massaggiatrice”.
“Spero di piacerti”.
“Lei è molto carina”.
“Grazie, anche tu sei un bell’uomo. Come ti chiami?”.
“Geppetto!”.
Lei sorrise.
“Perché non ci diamo del tu, Geppetto?”.
“D’accordo”.
Zeno Civetta era molto nervoso, non sapeva cosa fare. Per la prima volta si trovava in una situazione del genere, ma avrebbe interpretato nel miglior modo possibile la parte dell’uomo sicuro. Stefi si era seduta sul divano e lui le si sistemò accanto, mantenendo le distanze di sicurezza.
“Cosa vuoi fare Geppetto?”.
“Non saprei. Vuoi un po’ di champagne?”.
“Sì, grazie”.
Era una donna di classe, non parlava dei soldi. Metteva il cliente nella condizione di sentirsi amato. Gli faceva pensare di essere un uomo interessante e fingeva di sembrare attratta da un fascino che il cliente non sospettava nemmeno di avere. Non una semplice donna da pagare. Era una professionista. Zeno Civetta stappò, non senza difficoltà, una bottiglia nuova e riempì due coppe. Per miracolo evitò di rovesciare tutto, ma si arrangiò un tono. Porse il bicchiere alla ragazza.
“A cosa vuoi brindare, Geppetto?”.
“Alle ruote di scorta, bucate”.
“Cosa?”.
“A te”.
“Grazie”.
Brindarono. Zeno Civetta osservava discreto le curve disegnate dalla camicetta sui seni sodi di Stefi. Poi le guardò l’ombelico scoperto. Era il più bell’ombelico che avesse mai visto in vita sua. Stefi accavallò le gambe e lo guardò con dolcezza.
“Che lavoro fai?”.
“Sono un giornalista”.
“Un giornalista?”.
“Sì”.
“Che genere di giornalista?”.
“Scrivo pezzi, mi vengono bene i coccodrilli”.
“I coccodrilli?”.
“Sono gli addii alle persone morte”.
“Ah, non è triste?”.
“No, certe volte mi pare di regalare l’immortalità”.
“Addirittura?”.
“Una cosa così”.
“Una volta o l’altra proverò a leggere qualcosa di tuo”.
“Te lo sconsiglio”.
“Perché?”.
“Perderesti tempo”.
“Ma ti piace?”.
“Ha dei lati positivi. Ad esempio posso essere qui con la più bella ragazza del mondo alle quattro del pomeriggio, mentre tutta la città lavora. Ma è così solo oggi”.
Zeno Civetta cominciò a rilassarsi. Stefi lo aveva condotto in una discussione che lo tranquillizzava e gli dava modo di farsi ammirare. Comunque non voleva parlare troppo del suo lavoro. Non voleva piacerle per il suo lavoro, anche perché non ci sono poi tutti questi motivi perché un giornalista debba piacere.
“Dimmi, com’è fare il giornalista?”.
“Da 30 anni abbiamo perso Beppe Viola, da 20 Gianni Brera. Poi è arrivato Verissimo. Il giornalismo è andato a puttane. E pensare che una volta erano i giornalisti ad andarci”.
“Ora no?”.
“Capita”.
“Quanti anni hai, Geppetto?”.
“Trentaquattro”.
“E perché un giornalista, bello e giovane, chiama una come me in un albergo?”.
“Non lo so. Comunque non sono bello e poi volevo parlare”.
“Cosa c’è che non va?”.
Stefi appoggiò al tavolino il bicchiere vuoto. Zeno Civetta fece lo stesso. Poi la guardò negli occhi, gli pareva fosse l’unica persona al mondo in grado di capirlo. Era bella e intelligente e lui era felice di averla con sé.
“Non sapevo cosa fare, oggi, così ho preso questa stanza, ho guardato il giornale e ho telefonato. Non l’avevo mai fatto prima”.
“L’avevo capito. Sai, i miei soliti clienti a quest’ora avrebbero già dato il meglio”.
“Scusa...”.
“Non ti preoccupare. Sto bene”.
Stefi era una grande donna. Zeno Civetta se ne stava già innamorando.
“Perché, mentre mi racconti qualche storia, non ti sdrai sul letto? Così ti massaggio un po’ la schiena. E’ quello che diceva l’annuncio, o sbaglio?”.
“D’accordo”.
Si alzarono dal divano. Stefi si tolse le scarpe e si adagiò sul letto. Zeno Civetta era imbarazzato e si sfilò solo la giacca. Lei disse:
“Come faccio a massaggiarti se tieni la camicia?”.
Zeno Civetta si liberò della cravatta, tolse la camicia e le scarpe. Restò con una maglietta bianca e i pantaloni. Non sarebbe mai andato oltre, già così si vergognava maledettamente. Si stese sul letto a pancia in giù. Lei cominciò a passargli delicatamente le mani sulla schiena.
“Allora Geppettino, dimmi. Quante ragazze hai avuto?”.
“Poche. Dopo avermi conosciuto bene sono sempre scappate”.
“Sono proprio delle sciocchine le tue amiche”.
“L’ultima però non scappa, mi si è incollata”.
“Non pensarci adesso”.
Lui si innamorava sempre più ad ogni parola che le sentiva sussurrare. Stefi aveva una voce dolce e rassicurante. In poco tempo la amò. Lei continuava a parlargli con passione.
“Quando hai cominciato a fare il tuo mestiere?”.
“A vent’anni collaboravo dal mio paese col quotidiano Il Giorno. Col tempo sono entrato in redazione, poi l’esame di Stato e alla fine siamo qui”.
“Adesso sei famoso?”.
“No, i giornalisti famosi vanno in Tv”.
“Perché non ci vai?”.
“Non mi ci chiamano”.
“Di dove sei, Geppettino?”.
“Vengo da un paese di montagna. Si chiama Villa di Tirano, provincia di Sondrio”.
“Anch’io sono una ragazza di montagna sai, il mio paese è in Ungheria”.
“Però parli benissimo l’italiano”.
“Me la cavo”.
“La montagna è fantastica”.
“Certo, nemmeno da paragonare col mare”.
“I paesaggi di montagna sono tutta un’altra cosa”.
“Tutta un’altra cosa. Da piccola andavo a caccia con mio padre. A volte mi faceva anche sparare”.
“Anche i miei sono cacciatori, da generazioni. Cacciatori diversi però; saper cacciare è un’arte, e loro sono degli artisti”.
“Davvero?”.
“Sì”.
“Però quando mio padre portava a casa un cervo… perché da noi ce ne sono di grossi... davvero grossi, Geppettino. Beh, sai cosa c’era? C’era che alla fine mi dispiaceva”.
“Ti capisco”.
“La caccia è bella ma è nostalgica. Va a finire che ti dispiace”.
“Ti dispiace sempre, alla fine”.
“E pensare che non l’avevo mai detto a nessuno. Stavo lì, da piccola, e non dicevo a nessuno che mi dispiaceva un po’ per il cervo. Pensavo che dicendolo mi avrebbero considerata una mezza calzetta”.
“Beh, oggi come oggi, bisognerebbe cacciare i cacciatori”.
“Sai Geppettino, io andavo anche a pesca”.
“Davvero?”.
“Sì, prendevo certe trote!”.
“Io non ho mai pescato. Mio fratello pescava spesso”.
“E’ rimasto al paese?”.
“E’ morto”.
“Mi dispiace. Non volevo”.
“Non fa niente, Stefi. Non fa niente. Si muore sempre dopo aver vissuto un po’”.
“Certe notti penso che vorrei tornare al paese e aprire una libreria. Il cielo della montagna ungherese, di notte, è grande. Sai, tutte le stelle e quel vento freddo. Non abbiamo grandi cime, ma il freddo c’è. Eccome”.
“Tornaci”.
“Forse un giorno tornerò, mi sposerò e vivrò per sempre lì. La mia libreria sarà la più bella del paese”.
“Leggi molto?”.
“Sì, leggo vecchi libri gialli inglesi. Solo che mi capita una cosa strana, alla fine divento amica dei personaggi e non vorrei mai lasciarli andare”.
“Capita così. E’ incredibile. Pochi scrittori ci riescono”.
“La mia libreria venderà solo i libri di quegli scrittori”.
Il tempo passava e Zeno Civetta si stava rilassando grazie alle delicate mani di Stefi che gli stuzzicavano la schiena. Quando capì che era esattamente tutto quello che aveva sempre desiderato le disse:
“Perché una ragazza di paese come te fa questo lavoro?”.
Stefi non rispose. Continuò a massaggiarlo, seduta sul letto al suo fianco.
“Stefi, stai recitando?”.
“Io ci so fare con gli uomini Geppettino, so quello che vogliono da me”.
“Stefi, ti supplico, continua a recitare”.
“Beh, anche tu stai recitando con me”.
“Cosa dici?”.
“Io faccio il mio lavoro, tu invece non hai avuto nemmeno il coraggio di dirmi il tuo nome”.
“Scusa, è vero”.
“Adesso, Geppettino, pretendi di aver trovato la felicità in questa stanza. Ma quand’è che racimolerai le palle di uscire?”.
“A giudicare dal tuo tono, temo presto, tesoro”.
“Quando ti sposi, Geppettino?”.
“Domani”.
“Perché?”.
“Sono innamorato, dicono”.
Zeno era triste e depresso. Stefi si era sdraiata al suo fianco e gli accarezzava la pancia.
“Non devi preoccuparti, Geppettino”.
“Tu dici?”.
“Non pensare adesso”.
Zeno Civetta guardò la stanza, era lì con lei da quasi due ore, pensò di non volerne più uscire. Finirono la bottiglia di champagne sul letto.
“Non usciamo di qui, Stefi”.
“Non dire così”.
“Non voglio tornare”.
“Dovremo, prima o poi”.
“Mi costerà di più tenerti tutta la notte?”.
“Non parliamo di questo ora”.
“Andiamo da te e apriamo quella libreria. Noi due. Rifacciamo tutto daccapo. Io ti ho capita sai, sei diversa dalle altre, e forse mi ami già un po’”.
Era indubbio che lo champagne avesse già fatto effetto su Zeno Civetta.

Dopo un’ora Zeno Civetta ordinò una cena in camera. Stefi non lo abbandonava. Mangiarono davanti alla grande vetrata che dava sulla strada. Il sole tramontava. Zeno Civetta la guardava, lì, davanti a lui. Non sapeva se vergognarsi oppure no. Stefi disse:
“Com’è lei?”.
“E’ buona con me”.
“Cos’ha che non va?”.
“Vuole sempre andare in vacanza al mare”.
“Tutto qui?”.
“Ha troppi amici, la salutano tutti, non puoi entrare in un bar per bere un cinzanino che sono tutti lì a salutarla”.
“E’ meglio che tu mi dica cosa non va in te”.
“Quando uno si sposa deve avere un trapano”.
“Un trapano?”.
“Sì, per fare tutti quei lavoretti in casa. Avvitare, svitare…”.
“E tu ce l’hai il trapano, Geppettino?”.
“Io non sono capace di fare i lavoretti di casa”.
“Ma come, Geppettino? Il tuo nome suggerirebbe il contrario…”.
Risata.

Restarono nella stanza 27 per tutta la notte. Guardarono un vecchio film noir francese, “Ascensore per il patibolo”, e bevvero vino rosso. Risero molto. Solo quando alla fine si abbandonarono al giaciglio Zeno Civetta tolse i pantaloni. Stefi si sfilò le calze e la camicia. Reggiseno e mutandine neri su pelle di seta.

Al mattino Zeno Civetta fu svegliato all’ora concordata dal suono del telefono. Stefi era già vestita, gli diede un bacio e gli disse:
“Sarà meglio che mi dici il tuo nome, se vuoi che ti legga”.
“Zeno Civetta”.
“Era meglio Geppetto!”.
“Decisamente”.
“Va beh, regalo di nozze; diciamo che mi pagherai la nottata con un articolo sulla mia libreria. Ora devo andare”.
“Aspetta!”.
Zeno prese un biglietto da visita dal suo portafoglio e lo diede a Stefi.
“Grazie cucciolo. Leggerò, stai sicuro”.
“Tutte le volte che scriverò un coccodrillo penserò a te, che lo stai leggendo, in qualche caffetteria d’alta classe”.
“Un bel modo per addolcire il ricordo del cadavere”.
“Cosa devo fare adesso?”.
“Qui sotto c’è una ferramenta. Compra il trapano, Geppettino”.
“Sì”.
“Ciao, Zeno”.
“Ciao, amore mio”.
Stefi uscì dalla stanza 27 dell’Hotel Excelsior. Lui poté ascoltare i suoi passi lungo il corridoio fino all’ascensore. Ogni colpo dei tacchi sul pavimento, una pugnalata allo stomaco. Aveva voglia di uscire e fermarla, ma riuscì a trattenersi. La stanza 27 non pareva nemmeno più tanto bella adesso; puzzava di malinconia e tristezza e solitudine e rimorsi e il rumore del traffico cittadino penetrava dai vetri delle finestre. Zeno Civetta prese l’abito gessato grigio dall’armadio aperto dove l’aveva riposto il giorno prima. Lo stese sul letto, fece una doccia e lo indossò. Prima di uscire dalla stanza sentì il profumo di Stefi appoggiando il naso sul cuscino dove la ragazza aveva dormito.

Alle 11 Zeno Civetta fu in chiesa con la sposa al suo fianco. Era nervoso e triste e agitato e depresso e si sentiva colpevole.
Alle 11.46 il prete gli fece la domanda di rito. Zeno Civetta rispose. Poi il prete si rivolse alla sposa, bella, dolce, tenera e con ogni probabilità innamorata, al suo fianco. In quel momento Zeno Civetta si frugò nella tasca sinistra della giacca e ci trovò un biglietto. Lo prese e lo guardò davanti al prete che continuava a snocciolare la sua fastidiosa litania. Diceva:

335.4536887
Per un'altra notte in cima alle montagne
Stefi

Zeno Civetta rimise in tasca il biglietto e, con una gioia del tutto nuova, si preparò a baciare ardentemente la sposa.

venerdì 5 ottobre 2012

Folco Orselli e Pepe Ragonese a Sondrio, 29 settembre 2012

E così per un paio di sere Sondrio è tornata a respirare aria di poesia stradaiola, di racconti epici, maledetti o goliardi, di vita bruciata senza sconti. Il cantautore milanese Folco Orselli, maggior talento italiano del genere, è stato protagonista di due serate al Madras, giovedì e venerdì scorsi. Nella prima era con lui lo scrittore Vincenzo Costantino ‘Cinaski’, nella seconda il fido e magico trombettista Pepe Ragonese. E’ del concerto della seconda sera che vi parliamo. Perchè in un paio d’ore Folco (voce, piano, chitarra) e Pepe (tromba), hanno risvegliato coscienze sonnolente. Lo chansonnier ha snocciolato brani dai suoi dischi del passato - addirittura una bellissima "Il crogiuolo" e una disillusa "Senza neanche una lira" - fino a giungere alle perle dell’ultimo album, quel "Generi di conforto" uscito un anno fa, ingiustamente escluso dalla lobby vecchia e stantia del Club Tenco, ma celebrato con un recente speciale anche da Vanity Fair. Fra un pezzo e l’altro ha raccontato storie di giocatori d’azzardo e frequentatori di night, innamorati perduti e rivoltosi incalliti, per introdurre il noir di "Storia della morte e del suo amore", l’ironica crudezza de "La ballata di piazzale Maciachini" o il romanticismo perfetto di "La ballata del Paolone". Blues, ballad, venature jazz e soprattutto il mestiere narrativo dei maestri milanesi; quelli di cui si sente tanto la mancanza anche se poi, quando uno nuovo irrompe, spesso si commette il tragico errore di ignorarlo. Ah, dopo il concerto, per gli irriducibili, c’è stata una lunga appendice. Proseguita, per pochi eletti, anche il giorno dopo in una baita di Pian Gembro. Cose per bene, per cui vale ancora la pena di spendere nostalgie. Torneranno.

giovedì 5 luglio 2012

Bruce Springsteen and the E Street Band - Colonia, Berlino, Milano, Trieste; maggio e giugno 2012

Quattro concerti di Bruce Springsteen con la E Street Band fra fine maggio e inizio giugno, due in Germania e due in Italia, sono tanta roba, soprattutto a livello emotivo. Questa però è un’analisi complessiva, non voglio addentrarmi nello specifico di ogni singolo spettacolo, anche perché le diverse sfumature sono molte, come sono tante le magie che quest’uomo autentico, sincero, vitale e impegnato, ha saputo regalarci, ancora una volta, senza trucchi, solo con il suo rock e una passione inesauribile. E anche perché per recensire un concerto come quello milanese, ormai, non avrei più parole. Parto dunque da una considerazione basilare: il Wrecking Ball Tour è frutto di un grande disco, un progetto con un’idea centrale forte, e ciò basta a renderlo unico. Che poi Bruce abbia deciso di spostare ancora più in là l’asticella e di superare se stesso arrivando, nel caso specifico di Milano, a sfiorare le quattro ore sul palco senza una sola pausa, è un fatto oltre natura, che riguarda solo ed esclusivamente questo celeberrimo poeta 62enne, senza ombra di smentita il più grande performer di tutti i tempi. Nel tour precedente, tre anni fa, suonava in media mezz’ora di meno, e già ci sembrava mostruoso. Ma passiamo oltre. Il concerto ha come base 7 o 8 pezzi del nuovo album. A parte We Take Care of Our Own, inno rock tipico del Bruce post 2000 che al momento dell’uscita in forma di singolo non mi aveva entusiasmato ma che dal vivo è possente, le altre canzoni del disco presentate sembrano uscire dal contesto generale del live per proporci il Bruce 2012, più cantore folk dei nostri tempi difficili che rockstar internazionale. A mio parere questi brani sono a tutti gli effetti la marcia in più del tour e dimostrano come il progetto iniziale, che non prevedeva la E Street Band, forse lo avrebbe portato in giro in altra veste, se solo lo scorso anno non fosse mancato Clarence Clemons. Questo è il nuovo Boss, che guarda con favore al periodo Seeger Sessions e forse si affaccia ad un futuro più intimo. In Wrecking Ball come in We Are Alive il momento dell’ingresso di tutti i fiati catapulta lo spettatore dall’introspezione all’esplosione soul. Il giro potentissimo e incazzato di Death to my Hometown è una pura marcia irlandese e Shackled and Drawn, con il finale cantato dal Boss fra la gente insieme alla splendida voce nera di Cindy Mizelle, è una delle parti più intense dello spettacolo. Jack of All Trades, dedicata ovunque a chi sta lottando contro la crisi, è la canzone fulcro del concerto. Una ballata in cui la parte centrale con la tromba di Curt Ramm sembra accompagnare il funerale dei sogni. Solitamente collocata all’inizio dei bis, Rocky Ground è fondamentalmente un bellissimo gospel, e la parte rap che fa capolino anche dal vivo con la corista Michelle Moore quasi non si nota. Land of Hope and Dreams e American Land, già conosciute, sono gli altri due pezzi del disco che vengono presentati, la prima frequentemente ma nella diversa veste che le ha dato l’album, la seconda quasi mai (l’ho sentita solo a Colonia, su richiesta). Ecco, in questo pugno di canzoni, (è un peccato che del disco ne siano state tralasciate altre, come Easy Money o This Depression), sta la differenza basilare con il tour precedente, e qui dentro di rock ce n’è poco. Il resto dello show è la sua storia, la nostra storia. E’ puro Springsteen, bellezza. Uno Springsteen in stato di grazia che da Colonia a Trieste ha sempre superato le tre ore abbondanti di spettacolo, presentando i pezzi di una carriera quasi quarantennale, in una cavalcata epica in cui si dona completamente alla sua gente, ci si butta proprio dentro, sorridendo, da capopopolo quale è. Arriva a mescolare un po’ le carte il superbo Apollo Medley (The Way You Do The Things You Do e 634-5789) - ascoltato a Colonia e Trieste - che Bruce introduce esaltando l’importanza del soul nella sua formazione e nella sua carriera. Poi ci sono le varie sorprese che fanno capolino e lasciano senza parole. Impossibile non citare Honky Tonk Women a Colonia, When I Leave Berlin in apertura e Save my Love su richiesta a Berlino o The Promise acustica al pianoforte a Milano. C’è spazio per qualsiasi possibilità, anche per immortali cover rock’n’roll, vista la solidità del gruppo e considerato che da un concerto al successivo cambiano mediamente almeno dieci pezzi. Ma veniamo alla questione che ha arrovellato tutti gli animi springsteeniani dal giugno 2011. L’assenza di Clarence. A mio giudizio si fa sentire soprattutto come presenza scenica. Per il resto i cinque fiati chiamati al suo posto, con Eddie “Kingfish” Manion e il nipote Jake Clemons (davvero bravo) ai due sassofoni, si fanno onore, sopperiscono alla grande e talvolta colorano i brani di quella vena rhithm’n’blues che è un valore aggiunto, vedi il finale di Thunder Road, ascoltata a Berlino e Trieste. Questa soluzione era parsa la più indicata dall’inizio, e i concerti ne danno conferma. Big Man non c’è più, ma il Boss ha trovato il modo di commemorare prima lui e Danny, durante la presentazione del gruppo in My City of Ruins quando dice di sentirli nelle voci della gente, e poi solo Clarence, con le immagini video che scorrono sui megaschermi nell’intermezzo, commovente, di Tenth Avenue Freeze-Out. Bruce appare in forma strepitosa anche dal punto di vista vocale e addirittura, spesso, toglie la scena chitarristica a Nils e Steve. I pilastri della E Street restano Roy al piano e Garry al basso, mentre l’impeccabile Max impressiona sempre di più con l’avanzare del tempo. Insomma, tutti i membri della Leggendaria continuano ad interpretare alla perfezione il loro ruolo e Little Steven è divenuto a tutti gli effetti l’unica grande spalla del Capo, anche se fatica a star dietro alla sua furia. Superfluo dire che uno show come Milano, con 33 canzoni, entra di diritto nella leggenda rock e springsteeniana, a tutti gli effetti e senza invidiare nulla a spettacoli di dieci, venti, trenta e quarant’anni fa. 30 i pezzi a Colonia, 28 a Berlino, 29 a Trieste. Importanti le differenze fra i tipi di pubblico. Ordinato e composto, al limite del freddo, quello tedesco, stellare per coinvolgimento quello milanese. A Trieste un misto di entrambe le cose, essendo arrivati in quella bellissima città almeno 15mila fan provenienti da nazioni estere. Al netto dell’esaltazione per questa strepitosa macchina rock’n’roll che da ormai quarant’anni domina la scena mondiale, si deve però dire che l’impostazione base della scaletta avrebbe potuto essere diversa. Con qualche brano in più appartenente al cofanetto di inediti di Darkness, uscito poco più di un anno fa, il concerto avrebbe preso una direzione nuova, unica rispetto al passato. Avrebbe esaltato la sezione fiati e magari evitato la riproposizione a oltranza di brani che negli ultimi dieci anni sono sempre stati onnipresenti nelle performance di Bruce con la Band. Penso alle Sunny Day, alle The Rising, alle Dancing in the Dark o alle Hungry Heart per citarne solo quattro; se è vero che fanno impazzire il pubblico da stadio, è altrettanto vero che per chi segue il Boss da sempre sono diventate un po’ stucchevoli e avrebbero potuto essere sostituite da cose praticamente mai proposte. Ma forse ci sarà un altro tempo. Voglio sottolineare, a beneficio di tutti coloro che spesso rinunciano a un concerto negli stadi temendo l’annunciato sold out, che sono andato a tutti e quattro i concerti senza avere in mano il biglietto. Li abbiamo trovati in loco, non da bagarini ma da fan che ne avevano in più da vendere a prezzo assolutamente regolare. Questo anche in Germania, dove è stato istituito il biglietto per il pit, l’ambitissima zona sottopalco che in Italia era invece oggetto di lotteria per l’ordine di accesso e conseguente arrivo in transenna. Dico questo per testimoniare che, negli stadi, i biglietti si trovano sempre e senza particolari apprensioni, nonostante gli annunci strillati. Infine la considerazione che tutti i seguaci del profeta si trovano a fare alla fine di ogni tornata, soprattutto da quando il ragazzo del Jersey non è proprio più un ragazzo. E ora? Premesso che già si parla del giro del 2013 e che lo stesso Bruce ha sempre salutato il pubblico sottolineando un previsto ritorno (“…arrivederci Milano”) - cosa che fa enormemente piacere - è ovvio che la speranza di non dover aspettare altri tre anni prima di rivederlo c’è tutta, come quella che Dio gli conservi questa impressionante forma. Realisticamente però non si riesce a immaginare cosa si possa chiedere di più alla sua carriera rock live. Oltre questo San Siro, che ha almeno eguagliato il ricordo del 1985 in tutti coloro che c’erano in entrambe le occasioni, sarebbe inumano andare, e forse anche sbagliato. Folk, gospel, country, soul, blues, tutti questi generi sono stati ben amalgamati proprio nelle canzoni del nuovo album - e in altri brani - presentate dal vivo. E sono stati già esplorati dal Boss. Questo può essere il viatico per la prossima fase di carriera, quella da ultrasessantenne. Ovunque ci porterà, noi ci saremo. E se saranno palazzetti o teatri, tanto meglio. Con la E Street o senza. Ci saremo, perché il più grande rocker di sempre lo merita.

venerdì 4 maggio 2012

Woody Allen - To Rome with Love - Anno 2012


Torniamo a parlare di un nuovo film di Woody Allen dopo l’exploit retrò che era stato, sotto Natale, “Midnight in Paris”. Questa classica commedia alleniana ambientata stavolta nella città eterna richiama a tratti proprio l’ultimo lavoro, soprattutto nella parte della storia in cui è protagonista Alec Baldwin nelle vesti di un ricco architetto “venduto ai centri commerciali” che torna indietro nel tempo al suo anno spericolato e innamorato trascorso a Roma in gioventù. C’è poi un Roberto Benigni in ottima forma vestire i panni di un uomo normalissimo che d’improvviso, a causa del caotico circo mediatico e televisivo, diventa famoso. Poi c’è la giovane coppietta di provincia che attraverso il reciproco tradimento si unisce ancora di più, e qui spicca il mestiere di Antonio Albanese. Infine c’è l’episodio in cui torna a recitare proprio Allen, nei panni di quel se stesso che più conosciamo e che spesso si riflette anche sui suoi protagonisti. Stavolta è un regista d’opera in pensione “che ha sempre precorso i tempi” e che, da inimitabile talent scout, scova nel futuro consuocero e becchino, un fenomeno del canto, purtroppo però solo sotto la doccia. Non si tratta di uno dei più bei film del regista newyorkese, che pare voler insistentemente continuare a scavare fra i suoi cliché; il rapporto uomo-donna e quello che questi hanno con il sesso, le frustrazioni del non avercela fatta e l’effimero di una società sempre meno digerita. Non mancano però picchi di genio comico qua e là, una vera valanga di comparsate da parte di attori italiani, e soprattutto una cartolina di Roma come se ne sono viste poche nella storia del cinema. Nel complesso si esce dal cinema soddisfatti; Allen nelle ultime prove “europee” non ha mai deluso. Di Baldwin la battuta che resta: “Se una cosa ti sembra troppo bella per essere reale, è perché non lo è”.

martedì 1 maggio 2012

Luf e Gang a Colere, 28 aprile 2012

La festa del primo maggio sulle montagne di Colere in provincia di Bergamo è uno degli ultimi baluardi di quel comunismo reale e ideologico fatto da braccia di muratori e camicie intrise di sudore di cui tanti, oggi, sentono la mancanza. Una di quelle manifestazioni operaie nel vero senso della parola, distanti migliaia di chilometri dalla baraonda giovanile, forzatamente alternativa e un po’ snob che ormai da tempo sono diventati altri appuntamenti sindacali di maggior enfasi mediatica. E lo scorso 28 aprile, con la presenza sul palco dello storico Palacolere (un tendone abbarbicato sotto le vette della Presolana che in vent’anni ha ospitato alcuni fra i massimi artisti del rock a livello internazionale, ma che a breve verrà raso al suolo...), di due delle band italiane che dell’ideologia hanno fatto una bandiera come i ruspanti Luf e come i barricaderi Gang, la festa si è tramutata in cerimonia di fratellanza collettiva. Hanno aperto le oltre quattro ore di musica i Luf, sempre più affermata realtà folk rock e cantautorale, proponendo a sorpresa il motivo della springsteeniana “American land”, la canzone dei lavoratori emigranti in terra americana, che presto presenteranno in versione italiana. La band di Dario Canossi ha suonato per due ore i suoi brani più importanti, fra cui annotiamo anche una intensa “Il vecchio e il bambino”, dall’ultimo disco “I Luf cantano Guccini”, e la bellissima “Vorrei” dedicata a Peppino Impastato e scritta con il comico Flavio Oreglio. Partendo dal rodato irish sound imperniato su banjo, cornamusa e fisarmonica, da segnalare la debuttante “Angeli di neve” dedicata alle scorte di Falcone e Borsellino, vent’anni dopo le stragi. Il pubblico, presente in gran numero, ha mostrato di apprezzare, ed è stato letteralmente catturato all’entrata sul palco di Marino e Sandro Severini, che hanno suonato insieme agli amici della Valcamonica alcuni brani fra cui una corale “Comandante”. Poi è stata la volta dei marchigiani, l’unica rock band al mondo a prendersi il palco sulle note dell’Internazionale. Il concerto ha avuto inizio, come sempre, con l’adrenalinica “Socialdemocrazia”, mostrando immediatamente tutto il mestiere e la forma di un gruppo consolidato da anni e anni di dischi, chilometri e concerti. Di seguito i fratelli Severini (sul palco con i fidi Francesco Caporaletti al basso, Fabio Verdini alle tastiere e Luca Ventura alla batteria) hanno pescato a piene mani nei loro dischi storici (ma da troppo tempo ne manca uno nuovo), riproponendo con la consueta carica classici come “La corte dei miracoli”, “La pianura dei sette fratelli”, “Bandito senza tempo”, “Sesto San Giovanni”, “Kowalsky”, “Oltre”, “La lotta continua”. L’ultimo bis, sulle orme dello strimpellatore indimenticabile Joe Strummer, è stata una torrenziale “I fought the law”. Fra un brano e l’altro Marino non ha lesinato brevi introduzioni, ricordando l’importanza della storia, della memoria e della tradizione, come armi indistruttibili contro la paura di questi tempi difficili. Non è mancata una breve lezione filosofica, e Marino Severini è uno degli artisti italiani che se la possono permettere, sulle differenze fra Gramsci e Togliatti. Con il solito augurio di “tanta buona fortuna”, tutti a casa, tutti a ridiscendere la montagna, tutti felici di credere ancora in un sogno che forse tale non è più. Ma l’importante, per quegli uomini là, è crederlo ancora. Una festa dei lavoratori del genere è stata possibile grazie all’ennesimo sforzo dei tanti instancabili volontari che anche quest’anno hanno fatto diventare un piccolo paese nel cuore delle Alpi il vero fulcro italiano della musica rock d’autore più vera, quella che non si compra col prezzo del biglietto - che non era previsto - perché non ha nessun padrone.

venerdì 16 marzo 2012

Bruce Springsteen - Wrecking Ball - Anno 2012

“Se avessi una pistola, scoverei quei bastardi e li farei fuori”. Bruce Springsteen è tornato. Da più di vent’anni sento, e leggo, e scrivo questa frase ad ogni album nuovo del celeberrimo rocker del New Jersey, ma stavolta questa frase vuol dire qualcosa in più. Perché “Wrecking Ball” è un album spettacolare, che unisce diverse influenze musicali - e proprio per questo decine di musicisti - in un unico grande e nuovo sound per Bruce, e che vanta delle liriche di una rabbia, una potenza e una forza espressiva che non si sentivano da tempo. Certamente il suo disco migliore degli anni 2000, forse addirittura fra i primi in assoluto, ma resta il fatto che è difficilmente paragonabile a tutti gli altri proprio perché profondamente unico. Non sono stato un detrattore assoluto del periodo di produzione di Brendan O’Brian - anche se i suoi arrangiamenti hanno di certo imprigionato l’ottimo rock contenuto in “The Rising” o “Magic”, per non parlare dell’appena sufficiente “Working on a Dream” - ma stavolta si cambia registro e si torna a sentire una voce rocciosa su suoni nitidi. Il singolo, “We Take Care of Our Own”, a fine gennaio, mi aveva lasciato l’amaro in bocca. Anzi mi aveva proprio fatto incazzare. Sembrava appunto di riprendere il filone rock più archi e coretti tipico del precedente produttore, la canzone non aggiungeva nulla alla già enorme storia di Bruce, non era coerente con la sua non più tenera età e pareva un nuovo successo di facile presa radiofonica. Solo il testo, volgendo lo sguardo alla povertà americana 2012, lasciava intravedere un po’ di luce. Nel complesso comunque Bruce non poteva permettersi di darci così poco dopo tre anni di silenzio e una perdita enorme come quella di Clarence Clemons. Così non mi sono fatto abbattere e l’ascolto attento di tutto l’album mi ha regalato quello che speravo. “Easy Money”, seconda traccia, è folk irlandese allo stato puro, con l’aggiunta dei cori a rendere il clima più festaiolo su un testo che è un calcio nel culo alla legge. L’atto criminale si sta per compiere e una Smith & Wesson calibro 38 è pronta a sparare. Sembra di essere tornati a “Nebraska”. “Shackled and Drawn” è su questo stesso filone, potente e ruvida, folk che si fonde col gospel, con la batteria di Matt Chamberlain che picchia talmente forte da sembrare una mazza contro la cassaforte della banca. Rende perfettamente l’immagine di rancore e disperazione dell’uomo comune e onesto di fronte alla crisi economica mondiale causata dal potere. “Jack of All Trades” è il primo colpo al cuore dell’album, una ballata per piano, tromba da antologia e assolo finale di Tom Morello che certamente diventerà un classico springsteeniano. “Death to My Hometown” è folk rock celtico, di una forza epica, una marcia che dal vivo farà saltare tutti. A pestare c’è Chamberlain, che giustifica ampiamente la chiamata del Boss, mentre il ritmo è incalzante nonostante la canzone racconti di desolazione, con “gli avvoltoi che si sono presi le nostre ossa”. Ed eccoci ad un altro snodo cruciale, “This Depression”, che anche grazie al secondo intervento chitarristico dell’ottimo Morello, trasmette esattamente le difficoltà e le paure di questo buio periodo, e dimostra ancora una volta come il Boss sappia leggere la realtà e tramutarla in versi. La title track la conoscevamo perché proposta alla fine dell’ultimo tour, è la metafora ideale che rappresenta tutto un album di dolore ma anche di voglia di riscatto. Dopo un attacco per chitarra e voce vira in un’esplosione di fiati, abbracciando il soul. “You’ve Got It” ricorda vagamente il periodo “Tunnel of Love”, la ruvida voce del Capo si riprende la scena e ci sono importanti innesti di pedal steel guitar. Su “Rocky Ground” occorre fare un discorso a parte. Si tratta di un pezzo gospel che sarebbe risultato il contraltare superbo di “My City of Ruins”, dieci anni dopo. Purtroppo - ma ammetto che per chi ha meno paraocchi del sottoscritto è una fortuna - non mancano i pochi secondi rap proposti dalla intensa voce della cantante Michelle Moore. Al netto di questo è una grande canzone, con evidenti riferimenti biblici nei versi, ma per i puristi della biografia sonora springsteeniana si tratta di un bell’azzardo. Il testo è da brividi: “Dove una volta avevi fede, adesso c’è solo dubbio”. Torniamo a casa con la arcinota “Land of Hope and Dreams”, versione studio, inserita per rendere omaggio a Clarence, che qui prestava uno dei suoi ultimi assoli. Rappresenta uno dei pochi barlumi di speranza dell’album. Arriviamo ad un altro tassello fondamentale col country puro di “We’re Alive”, che emerge dai solchi di un vinile e non a caso contiene un sentito omaggio della sezione di fiati alla “Ring of Fire” di Cash. Struggente, questa “Spoon River” di Bruce, parte acustica e poi esplode corale, se il suono è a metà strada fra “Tomorrow Never Knows” e “My Best Was Never Good Enough”, nelle parole ricorda l’intero album di De Andrè “Non al denaro, non all’amore né al cielo”. Quindi ecco i morti descriversi sotto terra. Sono i nostri cari o dei semplici sconosciuti, che ci dicono di andare avanti, perché loro sono vivi, sono con noi, pronti a combattere spalla a spalla, cuore a cuore. Immensa. Nella versione deluxe dell’album (la moda di fare queste doppie versioni è una cagata pazzesca), c’è anche la drammatica, introspettiva, tetra “Swallowed Up - In the Belly of the Whale”, che ci porta in un caposselliano ventre di balena, fra Waits e Cohen. Da sentire e assimilare con calma perché potrebbe essere il viatico del Bruce sessantenne, quello che ci riserva il futuro. Il disco si chiude sul sound gioioso in salsa Pogues di “American Land”, figlia del progetto Seeger Sessions che sicuramente ha influenzato tutto il lavoro. Una versione studio che è di nuovo folk rock puro e farebbe ballare anche il cadavere di un bancario pigro, come hanno dimostrato le centinaia di concerti degli ultimi 6 anni. Non c’è nulla da dire, Bruce è tornato. A 62 anni ci ha detto che è ancora lì, a dire la nostra, a interpretare il canarino nella miniera. A rappresentare il grigiore dei tempi e ad aiutarci a combatterlo. E’ integro, lucido, ricettivo e vivo più che mai. Cosa si può chiedere di più a una leggenda rock con 40 anni di carriera sulle spalle? Non c’è nella sua intera discografia un album simile a questo, è riuscito a fondere quasi tutte le sue influenze - rock, blues, gospel, country, soul, folk - e a ricavarne un disco che resisterà al tempo. Il progetto vede una partecipazione ridotta all’osso dei membri della E Street Band, probabilmente a testimonianza del fatto che il concetto iniziale non andasse in quella direzione. Forse la dilatazione dei tempi di realizzazione e la virata su un ritorno, nel prossimo tour, con i vecchi compagni, sono avvenute a seguito dell’improvvisa dipartita del Grande Uomo. Altrimenti ci sarebbe stato un turno di pausa per loro, e magari - finalmente - sarebbero stati aboliti gli stadi, luoghi da inutili raduni di massa dove il Boss è spesso portato a gigioneggiare. Oggi come oggi, i palazzetti e i teatri andrebbero benissimo, gli consentirebbero di improvvisare cose più particolari ed eliminare quelle più facili. Si tratterebbe di un ambiente in linea con l’anagrafe e con l’approdo soul che la sezione fiati porterà a questi concerti; sarebbe meglio sentire tutto il nuovo album e buona parte di “The Promise”, piuttosto che l’ennesima “Hungry Heart”. Comunque, se è questo il Bruce che ci riserva la fase matura, E Street o no, Dio ce lo conservi. Note a margine: nel retrocopertina e nel libretto ci sono due foto già uscite nel book del “Live in Hide Park”. Difficile pensare che non ce ne fossero di inedite… Infine, mi piacerebbe sapere se il nuovo produttore, Ron Aniello, è servito solamente ad aggiungere la batteria elettronica che fa goffa figura - fortunatamente sotto traccia - in parte di “Jack of All Trades” o in alcune fasi di “Land of Hope and Dreams”, o a suggerire il sottofondo sintetico di “Rocky Ground”. Perché se così fosse, allora sarebbe meglio per Bruce prodursi da solo senza andare più a cercare altri guru del mixer. Inezie, che però offuscano in minima parte la bellezza di un disco enorme.

mercoledì 14 marzo 2012

L'ultima intervista a Clarence Clemons - Estate 2010


L’UOMO PIU’ GRANDE CHE TU ABBIA MAI VISTO
Intervista esclusiva a Clarence Clemons

Clarence Big Man Clemons è l'enorme schiena su cui Bruce Springsteen si appoggia da 37 anni. Quella schiena è sempre lì, pronta a non farlo cadere per terra. Insieme rappresentano l’ultima leggenda vivente del rock’n’roll, la favola di un’amicizia eterna, una storia a lieto fine. Fin da prima della copertina di Born to Run il loro legame è stato saldo come una montagna, e li ha portati a calcare per quattro decenni i palcoscenici di tutto il mondo, vivendo insieme il passaggio dai bassifondi all'Olimpo. Con qualche pausa sì, ma in fondo sempre uniti. Non esistono altri esempi di questo genere nella storia della musica. Questa intervista, che gli ho fatto a inizio estate dopo l’uscita italiana della biografia Big Man, storie vere e racconti incredibili, rispecchia in pieno quello che tutti i fan della E Street Band hanno sempre pensato del gigante nero col sassofono, del fratello maggiore di Bruce. Lo stesso identico effetto delle sue parole me lo aveva fatto poco prima il libro, ben scritto anche grazie al mestiere narrativo di Don Reo, che lo ha fatto diventare romanzo. C’è del vero e c'è della leggenda, ma entrambe le cose sono spassosissime. Clarence a tratti si prende in giro, oppure confida ai lettori delle verità molto personali; racconta per esempio, con umanità, di questi anni duri, in cui a causa dei malanni alle ginocchia e alla schiena ha dovuto stringere i denti per essere là, alla destra del Boss. Ma non è mai mancato. Ora però, dopo l’ennesimo intervento chirurgico, a quasi 70 anni, afferma di essere a posto. Pronto per crepare (come scrive nel libro), o, in alternativa, per nuove battaglie. Da questa chiacchierata appare chiaro che Big Man non si considera in pensione. Ci sarà ancora di che divertirsi; il suo sax sarà ancora il ponte che unisce il rock al soul, nella musica di Bruce. Con buona gioia di tutti noi, che dopo il tour dell’anno scorso, magistralmente immortalato nel recentissimo London Calling: Live in Hyde Park, non aspettavamo altro che di sentircelo dire.

Ciao Big Man! Anzitutto, tutti vogliamo sapere come stai dopo l'ultima operazione. Avevi scritto che a questo punto saresti morto, ma pare non sia successo.
Sto veramente bene. E’ stato un lungo e difficile ricovero per cui quest'anno devo stare a riposo. E' il mio anno per guarire, e quando tornerò sarò al 110%! State pronti.
Come passi queste giornate di riposo, senza più nemmeno un buon sigaro (pare glieli abbiano vietati, ndr)?
Trascorro molti dei miei giorni facendo progetti e divertendomi con mia moglie. In questo modo torno un essere umano. Qualche volta quando sei sulla strada perdi il contatto con il mondo reale; io mi sto riconnettendo con quel mondo e sto rimettendo il mio corpo in forma. Questo è tutto quello che fondamentalmente sto facendo.
Veniamo al libro. Leggendolo sembra di essere lì a sentirti fare l'ennesima volta l'assolo di Jungleland. Sei soddisfatto di questa incursione nel mondo letterario?
L’assolo di Jungleland e la stesura del libro sono stati entrambi dei grandi sforzi creativi. Quando creo, sia che la mia creazione sia musica o letteratura, mi diverto allo stesso modo. Ho imparato molto più di quanto immaginassi sulla scrittura di un libro. E’ stata una grande esperienza. Pensa che ho già iniziato a scrivere il prossimo!
La magia dell'amicizia con Bruce è ben descritta, ma anche fra te e gli altri membri della Band esiste un rapporto così forte, da famiglia, come sembra?
Sì, c'è un forte senso della famiglia nella Band. Siamo insieme da tanto tempo e tutti siamo lì per lo stesso proposito, quello di rendere la musica di Bruce viva, reale. La felicità di essere lì tutti per questo motivo fa di noi una famiglia.
Io sono cacciatore, e ho scoperto che tu sei un fenomenale pescatore. Riesci a dedicare tempo a questa passione?
Non dedico abbastanza tempo alla pesca. E' il miglior modo di rilassarsi che io conosca. Riesco a pensare molto mentre pesco ed entro in un mondo diverso da quello che sono abituato a frequentare. Trascorro molto del mio tempo libero alle Florida Keys, il migliore dei posti per la pesca.
Sei specializzato in cucina italiana, oltre che amante della grappa, che è una specialità delle mie parti. Suggeriscici un piatto.
Le polpettine di carne italiane! Ho una ricetta segreta che ho creato ed è fantastica.
Il libro descrive bene il vostro passaggio dalla povertà al lusso. Riuscite, oggi, a restare in contatto con le cose di cui cantate?
Non ho mai lasciato quel nostro mondo del passato. Tu non puoi scordare da dove vieni; se lo fai allora è tutto finito. E' importante restare in contatto con se stessi e con la realtà dalla quale si proviene.
Sempre nel libro, citi molti musicisti e anche tanti scrittori. Dimmi della passione per il grande Norman Mailer.
Beh, il modo in cui lui si accosta ai suoi argomenti, il modo in cui ti racconta una storia, il modo in cui si spiega, fanno di lui un grande, grande scrittore.
La parte del libro in cui Norman descriverebbe i vostri fan come dei veri fanatici è stupenda, e molti sono proprio così. Certo c'è un rapporto unico fra voi e la vostra gente. Come li vedi tu, i vostri fan?
Cos'è un fanatico? Cos'è il fanatismo? Sai, io non penso che i miei fan siano fanatici. Loro amano Bruce, loro amano la E Street Band. Non penso che rinuncerebbero davvero alla loro vita per la Band. Il fatto che amino così la nostra musica ci sprona a restare forti e concentrati sul nostro più grande proposito: portare a tutti loro la gioia.
Hai smesso di tagliare i capelli quando Bruce sciolse la Band nel 1989. Continuerai non tagliarli?
Qualche volta considero l’idea di tagliarli, ma questi pensieri spariscono velocemente. Per cui no, al momento non penso che li taglierò mai.
Cosa pensi dei dischi di Bruce senza la Band?
Dischi senza la Band? Bruce ha registrato senza la Band? Io non ne so nulla.
Don scrive che la morte è uno dei tuoi argomenti preferiti...
Beh... non so. Ma se parli dei Grateful Dead, Jerry Garcia era mio vicino e buon amico. Con lui ho trascorso buona parte della mia vita. Mi manca e mi mancherà molto la sua musica.
Mentre si sapeva della grande amicizia con Danny, non ero a conoscenza di quella così forte con Terry Magovern, persona straordinaria che anche io ho avuto modo di incontrare, seguendovi ovunque per 20 anni. Lo vuoi ricordare?
Terry era uno dei miei migliori amici. Ha gestito il mio bar prima di iniziare a essere coinvolto nel nostro mondo musicale. All’inizio era mio assistente, poi ha avuto una dequalificazione professionale… e ha iniziato a lavorare per Bruce. Lo porto sempre dentro di me, lo amo moltissimo e lo amerò sempre.
Mi piace molto il capitolo del libro in cui parli dello chalet in Scozia dove ti sei sentito in pace. E' quello il posto d'Europa che preferisci?
Quella è stata una grandissima esperienza, ma non è il mio posto preferito in Europa. Ci sono tantissimi posti che amo là, e forse l’Italia è quello che preferisco in assoluto. Amo stare lì e quando ci vengo mi sento come se fossi a casa, non importa in quale città io sia.
Davvero tu e Bruce avete regalato una Chevy a una cameriera?
Quell’episodio compare nelle pagine grigie, quelle chiamate ‘leggende’. No, non le abbiamo regalato veramente la Chevy, ma avremmo potuto farlo… No, sono un raccontaballe… Sì lo ammetto: gliel’abbiamo data!
Esistono canzoni di Bruce che non ami?
Non ci sono canzoni che Bruce ha scritto che non mi piacciono. Ci sono alcune canzoni che preferisco rispetto ad altre, ma non ce n’è una che davvero non mi piace. Artisticamente si esprime in modo incredibile.
Il rock finirà con la fine della E Street Band?
Non prevedo la fine della E Street Band, ma sono sicuro che quando saremo tutti morti ci sarà un’altra E Street Band da seguire.
Se non avessi vissuto tutta la tua vita artistica a fianco di Bruce, con chi l'avresti voluto fare?
Se non ci fosse stato Bruce avrei voluto spendere la mia vita artistica con Mick Jagger.
Quali sono il tuo film ed il tuo regista preferiti?
Martin Scorsese è il mio regista preferito e credo che Robert De Niro e Sean Connery siano due dei miei attori di riferimento. L’uomo che volle farsi re è uno dei miei film favoriti.
Quando il concerto supera le tre ore e quello là non accenna a smettere, ti viene mai voglia di tirargli il sax in testa?
Ah!!! Il tempo scorre molto veloce quando suoniamo. Non ci si rende conto di quando sono passate le tre ore. Non guardo l’orologio. Sento lo scorrere del tempo solo nel mio cuore.
Qual è il concerto che non dimenticherai mai?
Quello alla prigione di Sing Sing del quale parlo nel libro è uno di quelli che non potrò dimenticare. Per ovvie ragioni. E se non le conoscete, ragazzi, leggetevi il libro (Big Man ride, ndr).
C’è un desiderio che ancora non sei riuscito a realizzare?
No, non c’è un desiderio che non ho ancora realizzato. Penso proprio di averli realizzati tutti nella mia vita. Il mio più grande desiderio in questo momento è di continuare a fare quello che sto facendo.
Qual è il più grande insegnamento che hai tratto dalla meditazione?
La lezione più importante che ho ricevuto dalla meditazione è imparare a vivere con se stessi, imparare a stare da soli, a stare tranquilli. E ad aprire la propria mente.
Quello del 2009 è stato l'ultimo tour della E Street Band?
Assolutamente no. Non penso mai che ci sarà un ultimo tour.
Ciao Clarence, grazie. Non sai con quanta passione ti aspettiamo in Italia. Dì a Bruce di darsi una mossa.
Ok. Ok. Ok.