BORN TO RUN - Autobiografia di Bruce Springsteen
Con tempi lenti, ho
appena terminato la biografia del Nostro, che mi ha suscitato momenti
di piacevole conferma ma anche alcuni punti interrogativi. Il libro è
bello, scritto con sincerità totale, ironia, poesia, strutturato
come la scaletta di un suo concerto, e certifica le doti che tutti
noi che lo seguiamo da qualche decennio abbiamo sempre conosciuto in
lui. Chiarisce anche tante cose che già si sapevano, come il non
aver mai fatto uso di droghe o la fondamentale riluttanza di fondo
anche nel trattare il rapporto col denaro, ma è certamente piacevole
leggerle raccontate in prima persona. Bruce dimostra di saperci fare
come autore - anche se suppongo sia stato supportato da qualche
scrittore - e questa è una piacevole e ulteriore conferma della sua
unicità artistica.
Al netto di queste cose
certe porrei però a lui e a tutti voi che avete letto il librone
alcune domande. Bruce dedica oltre la metà delle pagine all'infanzia
ed alla prima fase, quella dei capolavori, paradossalmente quella di
cui si sapeva di più, perchè è sempre stata terreno fertile e di
conquista, già ampiamente e benissimo narrata dal biografo Dave
Marsh nelle sue mirabolanti opere, quelle che tenevamo - insieme al
libro dei testi Arcana - sul comodino da adolescenti come se fossero
la Bibbia. Parlo ovviamente dell'originale Born to Run e di Glory
Days. Meno capitoli - la parte terza, Living Proof - sono invece
dedicati alla fase matura e recente, diciamo dagli anni '90 in poi,
quella che desta maggiore curiosità - almeno allo scrivente - e che
è stata meno raccontata. Perchè non approfondire almeno alla pari
anche questo periodo, il più aderente alla sua vita attuale, con
tutti i lussi della rockstar mondiale ormai acquisiti?
Non solo. Uno dei momenti
cruciali della carriera di Bruce è stato sicuramente quello dello
scioglimento della Band e dei successivi due album del 1992, incisi e
poi portati in tour con una miscellanea di musicisti sconosciuti. Su
quel periodo Bruce avrebbe potuto dirci molto di più. Avrebbe potuto
spiegare perchè scegliere di fare un tour rock senza la E Street
Band suonando comunque i classici e soprattutto perchè Roy Bittan
rimase incluso in quei progetti, sia sui dischi (addirittura, caso
unico, collaborò in un paio di testi) che dal vivo. Perchè un solo
membro della E Street si salvò dalla decisione di interrompere il
rapporto? Ovvio noi la nostra idea ce la siamo fatta, ma sarebbe
stato bello conoscere la sua.
Bruce racconta, ad
esempio, gli stranoti fatti di American Skin del 2000, ma liquida in
poche righe progetti importanti come Devils & Dust e addirittura
quasi sorvola su Working on a Dream, album minore e glorioso
proprietario della copertina più orrida della storia, che
meriterebbe alcune delucidazioni. Stesso discorso per l'inutile High
Hopes, anche se nel breve capitolo dedicato a questo album esce fuori
un racconto interessante sulla delicata operazione alla schiena di
cui poco si sapeva, sui limiti vocali, sulla paura di non fare
abbastanza che sarebbe la base della durata dei concerti. E viene,
con mia immensa gioia, citata una frase di Clint Eastwood. Bruce non
ci racconta il motivo dell'insistenza nel perpetrare l'immagine e lo
status di rockstar da stadio anche e soprattutto passati i 60, a
fronte dei progetti solisti del decennio dai 40 ai 50, quando la E
Street era giovane e in piena forma. Perchè fra i 57 e i 67 anni
cinque tour targati E Street consecutivi, certamente mirabolanti, ma
molto simili fra loro? Forse sono cose che interessano solo il
sottoscritto, e in tal caso mi scuso. Ma mi sembrano argomenti più
interessanti ed inediti che l'ennesima descrizione delle estenuanti
registrazioni di Born to Run, di cui ormai sono a conoscenza anche i
pinguini esquimesi.
Riguardo invece quello
che nel libro c'è, ed in particolare entrando nel merito dei
rapporti con le sue persone, appare lampante, ma non priva di
scontri, la fratellanza di Bruce con Clarence e Steve, mentre gli
altri membri della Band, in particolare Danny, sono trattati con
maggiore distanza, anche con una punta di critica in certi momenti.
Nel complesso comunque è ben rappresentato e confermato il rapporto
famigliare della Band, mentre appaiono forse un po' stucchevoli le
amorevoli descrizioni di Patti e dei figli. Sul padre arriva a dire
cose realmente durissime fermandosi un centimetro prima di smentire
un amore mai espresso del tutto. Qualcosa che sicuramente gli ha
provocato degli scompensi e lo segna ancora oggi. L'adorazione per la
mamma è invece chiara.
Un'altra cosa che mi è
saltata agli occhi è un certo doppiopesismo. Mi spiego. Viene ben
rappresentata la sacralità - che tutti condividiamo - del momento
della sostituzione di Clarence con il nipote Jake, e il suo ritardo
al primo appuntamento col Capo me lo ha reso definitivamente
antipatico. Nel sottolineare l'importanza fondamentale del ruolo che
il giovane andava a ricoprire pare però Bruce si sia scordato che,
con Clarence ancor vivo e vegeto, aveva fatto eseguire l'assolo di
Born to Run per tutto un tour a una non meglio identificata Crystal
Taliefero... E la sostituzione di Max per diversi concerti del 2009
con il figlio 18enne? Quella viene trattata con una leggerezza che un
po' mi ha stupito, soprattutto se raffrontata alla descrizione del
maniacale e serissimo lavoro che porta a quei concerti leggendari.
Se per certi lati del suo
carattere pare di leggere la biografia che tanti di noi scriverebbero
di sé stessi (è addirittura tenero quando racconta della tremarella
nel suonare Tumbling Dice in una saletta con gli Stones nonostante
avesse passato i 60 e fosse una star mondiale da decenni), mi va
invece di ammettere la mia totale ignoranza dicendo che occorrerebbe
rivolgersi - se non fosse trapassato - al suo storico analista
newyorkese (piacevole che lo citi e lo ringrazi) per capire certe
pagine dedicate alle difficoltà nei rapporti con le persone e con il
successo. In particolare appaiono limpidi come la nebbia di novembre
in Val Padana i motivi di fondo della rottura con la prima moglie,
seppur spiegati con un lodevole e sincero impegno. E pure i motivi
della depressione rimangono nel limbo dell'ignoto, materia più che
altro proprio per addetti ai lavori della psiche. Ma certo non si
tratta di una malattia facilmente spiegabile, già è stato fin
troppo onesto a parlare di quelle lacrime, di quel buco nero che a
tratti sembra preludere perfino a un gesto estremo. Dio benedica il
Klonopin!
Bello che abbia ammesso
candidamente una sorta di egoismo nel voler entrare nella Hall of
Fame solo col suo nome, senza quello della Band. Un'ammissione che è
un atto di quella umiltà che ha sempre avuto, mista comunque
all'ansia di raggiungere l'Olimpo delle star che tutto il libro
testimonia. E bello il finale quasi mistico, con lui che rilegge il
suo passato in quell'albero abbattuto, e recita il Padre Nostro.
Concludendo, una
bellissima lettura, ricca di approfondimenti e descrizioni di vicende
di decenni prima al limite dell'incredibile. Come diavolo ha potuto
ricordare tutto? Una lettura che però non risponde a molti
interrogativi sui quali avrei voluto sapere di più. Peccato sia
praticamente impossibile sperare in un capitolo due che approfondisca
il non approfondito. Consoliamoci di aspettarlo nella sua versione
naturale. Su disco. Perchè la sensazione è che abbia ancora molto
da dire e che questo interminabile tour di un album di 37 anni fa gli
abbia tolto parecchio tempo per fare qualcosa di nuovo.