Introduzione

"Come scrittori di romanzi non siamo capiti".
Introduzione di Ugo Gugiatti a "L'uomo delle taverne", romanzo del Pinchet

giovedì 16 febbraio 2017

 BORN TO RUN - Autobiografia di Bruce Springsteen

Con tempi lenti, ho appena terminato la biografia del Nostro, che mi ha suscitato momenti di piacevole conferma ma anche alcuni punti interrogativi. Il libro è bello, scritto con sincerità totale, ironia, poesia, strutturato come la scaletta di un suo concerto, e certifica le doti che tutti noi che lo seguiamo da qualche decennio abbiamo sempre conosciuto in lui. Chiarisce anche tante cose che già si sapevano, come il non aver mai fatto uso di droghe o la fondamentale riluttanza di fondo anche nel trattare il rapporto col denaro, ma è certamente piacevole leggerle raccontate in prima persona. Bruce dimostra di saperci fare come autore - anche se suppongo sia stato supportato da qualche scrittore - e questa è una piacevole e ulteriore conferma della sua unicità artistica.
Al netto di queste cose certe porrei però a lui e a tutti voi che avete letto il librone alcune domande. Bruce dedica oltre la metà delle pagine all'infanzia ed alla prima fase, quella dei capolavori, paradossalmente quella di cui si sapeva di più, perchè è sempre stata terreno fertile e di conquista, già ampiamente e benissimo narrata dal biografo Dave Marsh nelle sue mirabolanti opere, quelle che tenevamo - insieme al libro dei testi Arcana - sul comodino da adolescenti come se fossero la Bibbia. Parlo ovviamente dell'originale Born to Run e di Glory Days. Meno capitoli - la parte terza, Living Proof - sono invece dedicati alla fase matura e recente, diciamo dagli anni '90 in poi, quella che desta maggiore curiosità - almeno allo scrivente - e che è stata meno raccontata. Perchè non approfondire almeno alla pari anche questo periodo, il più aderente alla sua vita attuale, con tutti i lussi della rockstar mondiale ormai acquisiti?
Non solo. Uno dei momenti cruciali della carriera di Bruce è stato sicuramente quello dello scioglimento della Band e dei successivi due album del 1992, incisi e poi portati in tour con una miscellanea di musicisti sconosciuti. Su quel periodo Bruce avrebbe potuto dirci molto di più. Avrebbe potuto spiegare perchè scegliere di fare un tour rock senza la E Street Band suonando comunque i classici e soprattutto perchè Roy Bittan rimase incluso in quei progetti, sia sui dischi (addirittura, caso unico, collaborò in un paio di testi) che dal vivo. Perchè un solo membro della E Street si salvò dalla decisione di interrompere il rapporto? Ovvio noi la nostra idea ce la siamo fatta, ma sarebbe stato bello conoscere la sua.
Bruce racconta, ad esempio, gli stranoti fatti di American Skin del 2000, ma liquida in poche righe progetti importanti come Devils & Dust e addirittura quasi sorvola su Working on a Dream, album minore e glorioso proprietario della copertina più orrida della storia, che meriterebbe alcune delucidazioni. Stesso discorso per l'inutile High Hopes, anche se nel breve capitolo dedicato a questo album esce fuori un racconto interessante sulla delicata operazione alla schiena di cui poco si sapeva, sui limiti vocali, sulla paura di non fare abbastanza che sarebbe la base della durata dei concerti. E viene, con mia immensa gioia, citata una frase di Clint Eastwood. Bruce non ci racconta il motivo dell'insistenza nel perpetrare l'immagine e lo status di rockstar da stadio anche e soprattutto passati i 60, a fronte dei progetti solisti del decennio dai 40 ai 50, quando la E Street era giovane e in piena forma. Perchè fra i 57 e i 67 anni cinque tour targati E Street consecutivi, certamente mirabolanti, ma molto simili fra loro? Forse sono cose che interessano solo il sottoscritto, e in tal caso mi scuso. Ma mi sembrano argomenti più interessanti ed inediti che l'ennesima descrizione delle estenuanti registrazioni di Born to Run, di cui ormai sono a conoscenza anche i pinguini esquimesi.
Riguardo invece quello che nel libro c'è, ed in particolare entrando nel merito dei rapporti con le sue persone, appare lampante, ma non priva di scontri, la fratellanza di Bruce con Clarence e Steve, mentre gli altri membri della Band, in particolare Danny, sono trattati con maggiore distanza, anche con una punta di critica in certi momenti. Nel complesso comunque è ben rappresentato e confermato il rapporto famigliare della Band, mentre appaiono forse un po' stucchevoli le amorevoli descrizioni di Patti e dei figli. Sul padre arriva a dire cose realmente durissime fermandosi un centimetro prima di smentire un amore mai espresso del tutto. Qualcosa che sicuramente gli ha provocato degli scompensi e lo segna ancora oggi. L'adorazione per la mamma è invece chiara.
Un'altra cosa che mi è saltata agli occhi è un certo doppiopesismo. Mi spiego. Viene ben rappresentata la sacralità - che tutti condividiamo - del momento della sostituzione di Clarence con il nipote Jake, e il suo ritardo al primo appuntamento col Capo me lo ha reso definitivamente antipatico. Nel sottolineare l'importanza fondamentale del ruolo che il giovane andava a ricoprire pare però Bruce si sia scordato che, con Clarence ancor vivo e vegeto, aveva fatto eseguire l'assolo di Born to Run per tutto un tour a una non meglio identificata Crystal Taliefero... E la sostituzione di Max per diversi concerti del 2009 con il figlio 18enne? Quella viene trattata con una leggerezza che un po' mi ha stupito, soprattutto se raffrontata alla descrizione del maniacale e serissimo lavoro che porta a quei concerti leggendari.
Se per certi lati del suo carattere pare di leggere la biografia che tanti di noi scriverebbero di sé stessi (è addirittura tenero quando racconta della tremarella nel suonare Tumbling Dice in una saletta con gli Stones nonostante avesse passato i 60 e fosse una star mondiale da decenni), mi va invece di ammettere la mia totale ignoranza dicendo che occorrerebbe rivolgersi - se non fosse trapassato - al suo storico analista newyorkese (piacevole che lo citi e lo ringrazi) per capire certe pagine dedicate alle difficoltà nei rapporti con le persone e con il successo. In particolare appaiono limpidi come la nebbia di novembre in Val Padana i motivi di fondo della rottura con la prima moglie, seppur spiegati con un lodevole e sincero impegno. E pure i motivi della depressione rimangono nel limbo dell'ignoto, materia più che altro proprio per addetti ai lavori della psiche. Ma certo non si tratta di una malattia facilmente spiegabile, già è stato fin troppo onesto a parlare di quelle lacrime, di quel buco nero che a tratti sembra preludere perfino a un gesto estremo. Dio benedica il Klonopin!
Bello che abbia ammesso candidamente una sorta di egoismo nel voler entrare nella Hall of Fame solo col suo nome, senza quello della Band. Un'ammissione che è un atto di quella umiltà che ha sempre avuto, mista comunque all'ansia di raggiungere l'Olimpo delle star che tutto il libro testimonia. E bello il finale quasi mistico, con lui che rilegge il suo passato in quell'albero abbattuto, e recita il Padre Nostro.
Concludendo, una bellissima lettura, ricca di approfondimenti e descrizioni di vicende di decenni prima al limite dell'incredibile. Come diavolo ha potuto ricordare tutto? Una lettura che però non risponde a molti interrogativi sui quali avrei voluto sapere di più. Peccato sia praticamente impossibile sperare in un capitolo due che approfondisca il non approfondito. Consoliamoci di aspettarlo nella sua versione naturale. Su disco. Perchè la sensazione è che abbia ancora molto da dire e che questo interminabile tour di un album di 37 anni fa gli abbia tolto parecchio tempo per fare qualcosa di nuovo.